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Intervista in esclusiva al Comandante Generale delle Capitanerie di Porto – Ammiraglio Felicio Angrisano

Del 21 Febbraio 2014

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AL SERVIZIO DELL’ECONOMIA MARITTIMA

Dal soccorso alla sicurezza della navigazione, dalla protezione dell’ambiente marino al controllo sulla pesca, dal diporto alle attività commerciali, il vostro è uno sguardo ampio su molte attività dell’Economia del Mare. Quale pensa sia il contributo principale che le Capitanerie di Porto forniscono allo sviluppo di questo settore trasversale?

“Il rapporto tra Capitaneria di Porto ed Economia del Mare è un rapporto stretto, vincolato da norme che qualificano le funzioni e il ruolo delle autorità marittime e ne riconoscono la specialità del servizio. Le attività essenziali del Corpo: soccorso in mare, sicurezza della navigazione, sicurezza del trasporto marittimo, protezione dell’ecosistema marino, controllo sulla filiera della pesca possono e debbono costituire segmenti di attività più ampie legate a quella che è la funzione del Comandante del porto, che svolge il ruolo di capofila della filiera del trasporto marittimo e della logistica integrata. Proprio partendo dalla funzione del Comandante del porto emergono evidenti come quelle funzioni costituiscono un modello di sviluppo dell’economia. In che modo? In primis nella sicurezza della navigazione. La capacità professionale degli ufficiali e dei sottoufficiali delle Capitanerie di porto che si interfacciano con questa materia, permette di anticipare le visite di sicurezza al momento in cui le navi giungono in porto, in modo da essere pronte a riprendere il mare, certificate, a conclusione delle operazioni commerciali. Le lascio immaginare il costo di una nave ferma in porto in attesa di una visita, visita o ispezione che le Capitanerie effettuano anche nei giorni festivi e all’estero senza soluzione di continuità. Anche la capacità di prevenire incidenti, anche attraverso i sistemi di monitoraggio del traffico, crea prodotto all’economia del mare perché un incidente di sicurezza marittima influirebbe negativamente sul sistema dei trasporti”.

Le Capitanerie di Porto lavorano per la difesa e la protezione di mare e naviganti. Qual è l’equilibrio più efficace tra regole e sviluppo?

“La posizione delle Capitanerie è complessa e delicata, perché ci troviamo al centro da un lato delle esigenze di sviluppo, crescita e programmazione e dall’altro di quelle di tutela che la legge affida a noi per la protezione di beni primari: la vita umana, la sicurezza e l’ecosistema ambientale. Durante la recente Assemblea di Assoporti ho cercato di mettere in luce lo scenario dei porti italiani, vecchi, destinati a ricevere le grandi navi, caratterizzati da una mancanza di solvibilità economica, in contrapposizione ai tre elementi che fanno invece di un porto uno scalo qualificato, accogliente e attraente per i traffici marittimi: il tempo, l’affidabilità e la sicurezza. Un porto sicuro permette di svolgere attività altrimenti non pensabili. Da qui discende la domanda: si può coniugare sicurezza con sviluppo? Io credo proprio di si, soprattutto se la sicurezza viene considerata non un costo ma un investimento”.

La recente tragedia di Lampedusa ha riacceso i riflettori sulla gestione delle migrazioni dalle coste africane. Vorrei cogliere l’occasione per fare chiarezza su un tema così delicato insieme all’Ente competente in materia di soccorso in mare.

“Dal 1991 le Capitanerie di porto affrontano il dramma di dare speranza ai migranti per sempre, allora albanesi, oggi siriani, magrebini, somali. In questi anni si calcola che l’organizzazione del soccorso, affidata per legge al Corpo delle Capitanerie di porto, abbia permesso di aiutare più di 300.000 persone alle quali è stata offerta speranza di vita, di un futuro migliore lontano dalle guerre, dai disagi, dalle oppressioni; è stata offerta la speranza di ritrovare la dignità di essere umano a loro negata. L’organizzazione ampia e professionalmente all’avanguardia di uomini capaci a cui viene affidato il cuore e l’anima di motovedette ormai per la vita, dalle cui strutture, dalle cui strumentazioni e dalle cui dotazioni sono rese uniche per affrontare ogni tempo di mare e prestare soccorso. A questi giovani va la mia gratitudine per l’impegno quotidiano nel proprio lavoro, gli rendo grazie per lo stimolo che mi danno e gli offro la mia riconoscenza per l’eccellenza del lavoro. Mi piace però ricordare che nella macchina del soccorso concorrono anche uomini e mezzi della Marina Militare, della Guardia di Finanza, del Ministero dell’Interno, e anche a loro va la profonda riconoscenza per l’alto lavoro svolto a chi è in procinto di perdersi in mare”.

Le Capitanerie di porto sono l’unica autorità competente in materia di soccorso in mare?

“A noi spetta il dover fare e la funzione di proteggere due diritti fondamentali dell’essere umano: la vita umana in mare e la sicurezza della navigazione. Da queste due posizioni di garanzia derivano i miei due doveri: il dovere di soccorrere e il dovere di sapere che le navi vecchie e senza dotazioni affondano. La Capitaneria di porto se non presta soccorso in mare viola un principio che le assegna la responsabilità del fare in quanto autorità competente. Noi dobbiamo fare; tutti gli altri corpi lo fanno ma non hanno l’obbligo di farlo. E’ dunque il dover fare e il dover sapere che differenziano il nostro comportamento. Se una barca di 20 metri parte con 500 persone dalle coste africane senza equipaggio, senza dotazione, senza un minimo di salvagente, io devo sapere che affonda, perché in Italia io una barca del genere non la autorizzo proprio a partire. Poiché la tutela della sicurezza è affidata a me, io devo sapere, e non possono non saperlo, che una nave così affonda. E l’esempio più lampante purtroppo è quello che è successo a Lampedusa. Sa quanto sarebbe occorso per salvare la vita di 360 persone? 25/22,50 euro se avessero avuto un segnale di soccorso. Sono arrivati a un miglio dalla costa e per farsi vedere hanno accesso la torcia e ha preso fuoco la barca. Se una nave da crociera è omologata per 5.000 persone e ne vuole portare 5.0001, io non la posso far partire perché devo sapere che non può portarne più di 5.000. E’ questo dovere che mi impegna a far rispettare le regole. Questo è il concetto, dover sapere e dover fare”.

Il fenomeno dei migranti è un problema europeo o soltanto italiano?

“Noi operiamo in un’area molto vasta che è un’area di responsabilità dove non c’è mare territoriale e non c’è alto mare. Ci interfacciamo con altre nazioni, come la Libia o Malta, ma da soli non possiamo garantire una tutela delle aree esterne. Solo oggi mentre facciamo questa intervista ci sono 6 barconi che stanno arrivando. E’ impossibile agire da soli. Ed è per questo che è certamente un problema europeo”.

Tornando invece ai porti italiani, preoccupano molto le carenze infrastrutturali diffuse su tutto il territorio nazionale. Cosa fare per aumentarne sicurezza e competitività?

“Oggi i nostri porti sono vecchi e devono affrontare un mercato che è completamente cambiato. Nei porti nazionali sono giunte navi che noi aspettavamo nel 2016, quelle da 12.000 teus, e a fine anno ne arriveranno 230 che ne trasportano 18.000. Difficilmente i nostri porti di transhipment potranno accoglierle. Ma la cosa peggiore è la vecchiezza delle banchine, che a volte non si possono dragare di più perché altrimenti collassano. Inoltre, le gru capaci di movimentare fino a 13 file trasversali di container devono essere sostituite con gruppi più potenti il cui peso potrebbe non essere sopportato da quelle banchine che erano state pensate per ricevere pesi inferiori.

Con le indicazioni che arrivano dal Ministero dell’Ambiente che non si può più buttare niente a mare che dobbiamo preservare, si sta verificando che ormai è arrivato il momento di dragare per realizzare apposite vasche di colmata. Le banchine quindi stanno sempre di più riducendo gli specchi acquei di evoluzione delle navi. Succede che da una parte le Autorità portuali hanno adottato delle misure, che prevedono che le navi per operare in un porto debbano avere un bacino di evoluzione dell’1,8% circa della propria lunghezza massima, per cui se una nave è di 300 metri il bacino dovrà essere di circa 40 metri. La Capitaneria non può allargare i porti ma, con l’ausilio dei servizi tecnico-nautici, passa dalla letteratura del fare all’esecuzione dell’offerta di produttività. Riusciamo, infatti, a ridurre o eliminare del tutto il rischio della manovra in ambiti ristretti. Per cui le navi operano in sicurezza, compatibilmente con gli altri limiti strutturali. Se oggi riusciamo a dire che l’Italia fa 9.600.000 di container, non è solo grazie alla capacità dei porti ma anche per l’organizzazione, che fa capo a noi e che permette alle navi di manovrare in ambiti molto ristretti. Anche questo è un elemento che produce ricchezza”.

Tutte le analisi attestano che le lungaggini burocratiche inerenti l’entrata e l’uscita di merci stanno ferendo gravemente il sistema portuale italiano, sempre meno in grado di rispondere alla concorrenza estera. Possibile che sia così difficile invertire la rotta? E in che modo la Capitaneria di porto può contribuire ad un cambio di rotta?

“Le Capitanerie di porto si pongono come modello di riferimento che permette, in presenza delle nuove capacità legate ai sistemi informatici, come il Single Window, di ridurre o eliminare la burocrazia, investendo proprio sulla crescita e sullo sviluppo. Se accanto a questo ci poniamo anche come partner insieme alle Dogane per lo sdoganamento delle marci 48 ore prima che la nave giunga in un porto, con il cosiddetto pre-clearing, è evidente come la nostra azione aiuti a produrre ricchezza e benessere per il territorio portuale. In questo solco si pone anche e soprattutto l’attività che lega Unioncamere con il Comando Generale. Questa volontà comune di offrire agli utenti una ricchezza di produttività senza burocrazia sta sviluppando modelli operativi che porteranno in tempi sicuramente rapidi a individuare quelle procedure che – anomale – limitano gli investitori a puntare sulle attività in mare con nocumento grave e irrimediabile per un Sistema Paese che tenta di uscire faticosamente dalla crisi. Partendo proprio dalle crisi però si sviluppano nuove idee, nuove iniziative, nuove forme organizzative. In altre parole si esalta il merito di chi è bravo”.

Cosa pensa invece che possa essere utile al sistema della portualità turistica italiana e del turismo nautico?

“Sono molto favorevole alla portualità turistica perché per noi significa volano per comunicare la sicurezza in mare, però i porti dovrebbero essere aperti alla città, e non devono esser oasi per pochi. Questo lo dovrebbero cogliere i costruttori dei porti turistici, perché pur producendo ricchezza e benessere sottraggono al territorio un pezzo della loro costa. E allora il territorio cittadino subisce il porto turistico e molto spesso non lo accetta perché lo vede distante dai propri interessi. Ad un convegno dedicato ai porti turistici e al costo di un porto barca, prima è intervenuto un armatore che ha detto troppo, poi un gestore del porto turistico che ha detto troppo poco. Io sono intervenuto dicendo che allora io avrei dovuto chiedervi, in quanto operatore pubblico, quanto costa un posto barca al cittadino di quel territorio. A che cosa ha rinunciato lui per avere questo porto? Io credo che l’economia della portualità turistica dovrebbe prevedere una destinazione nell’ambito del proprio porto di spazi per il diporto minore locale, anche attraverso la realizzazione a latere in mare di un porto spiaggia o un porto a secco da destinare a quel diporto minore che favorirà sicuramente il turismo nautico, che è capacità di vivere il mare e le sue bellezze attraverso una propria casa sul mare, l’imbarcazione da diporto. Noi interveniamo in due momenti: uno proprio per garantire che il porto venga costruito secondo i canoni di navigabilità con apertura protetta al mare e approvando le regole di gestione e l’altro attraverso le ispezioni di sicurezza e il bollino blu. La prima stagione è andata bene, quest’anno abbiamo collaudato un modello che certamente affineremo cercando di migliorare. Attraverso questo impegno voluto dal Ministro riusciamo a riavvicinare il mondo del diporto nautico all’Italia dando quindi fiato alle imprese nautiche”.

Tra le vostre competenze, ci sono attività di controllo e tutela di un settore strategico per l’Economia del mare, la pesca.

“Ho rivoluto con il mio insediamento la ripresa di un tavolo permanente sulla pesca quale osservatorio privilegiato dei problemi della filiera. Noi vogliamo cogliere gli elementi critici del settore, proponendo dei modelli operativi e di comportamento che permettano una pesca sostenibile e che favoriscano l’ecosistema marino, perché la pesca è l’ultimo anello della filiera dell’ambiente. Dobbiamo proteggere le risorse e difendere i pescatori onesti, usando fermezza con i disonesti, che sono veramente pochi. Lei pensi che in questo settore con la nostra attività di controllo quasi stressante abbiamo sequestrato 4 milioni di chilometri di reti spadare dall’inizio della nostra attività e quindi da quando le spadare sono state dichiarate illegittime. Come se avessimo una filiera lunga da Roma a Helsinki! Con gli interventi dello Stato e anche con comportamenti più virtuosi dei pescatori, si sviluppa una certa capacità del mondo della pesca a continuare a operare, seppur con enormi difficoltà legate soprattutto al costo del carburante, per portare prodotti freschi italiani sulla tavola dei consumatori. Effettuiamo controlli mirati ai grossi centri di distribuzione del pescato e ai ristoranti oltre che ai mercati ittici e punti vendita, per evitare che si offenda il consumatore offrendo un prodotto di minor pregio indicandolo come specie di maggior costo. In più insieme alle ASL svolgiamo un compito di supporto all’attività di tutela della salute del consumatore. Tutte queste nostre professionalità e capacità le offriamo nei settori di interesse ad Istituti scolastici secondari attraverso forme di “student at work” che facilitano la conoscenza di un settore così vasto e delicato ai giovani, ai quali offrire anche potenziali opportunità di lavoro”.

Lungo le coste italiane, insistono 55 Capitanerie di Porto, 15 Direzioni Marittime, 51 Uffici Circondariali Marittimi, 128 Uffici Locali Marittimi, 61 Delegazioni di spiaggia. Si tratta di una delle più ampie reti nazionali. Secondo lei quanto pesano le differenze regionali o locali nello sviluppo del Sistema italiano del mare?

“Sicuramente una diversa posizione geografica incide molto su come il territorio, inteso come organizzazione territoriale e quindi come complesso istituzionale e privato, viva con attenzione il problema dei porti o meglio come vive la capacità di dare risposta nella legge ai bisogni del territorio. Penso occorra un coordinamento nazionale non tra i porti ma sulla mobilità. Se pensassi a un sistema unico che unisce i porti, gli interporti, i retroporti, che io chiamo territorio portuale, allora sarebbe diverso. Io metterei a fattor comune alcuni elementi dei piani regolatori portuali per le aree e le arterie di accesso ai porti. Ritengo importante prevedere arterie stradali dedicate e un maggior coinvolgimento delle reti ferrate”.

Nell’epoca della riduzione delle risorse, come aumentare l’efficacia della vostra attività?

“Anche il Corpo soffre di questa crisi che però non ha ostacolato che durante il periodo estivo gli uffici di diretta relazione con l’utenza diportistica e balneare rimanessero aperti il sabato e la domenica, come del resto gli omologhi reparti del Comando Generale, per offrire all’utente di oggi che per la stessa crisi vive solo di brevi weekend di poter trovare nelle Capitanerie di Porto un’amministrazione attenta, capace di dare risposte alle proprie esigenze e in grado di poter favorire anche attraverso attività amministrative, una balneazione serena e sicura. Finora abbiamo sempre trovato nei nostri referenti ministeriali degli attenti amministratori capaci di soddisfare le nostre esigenze, che hanno comunque sempre favorito un elevato standard di operatività, grazie ad una diversa organizzazione degli uffici e delle risorse”.

Roberta Busatto