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Grimaldi: “L’economia del mare è decisiva per la ripresa dell’Italia”

Del 7 Febbraio 2014

Il patron Manuel: i conti del 2013 sono in leggera crescita, abbiamo realizzato un utile di 160 milioni e un ebitda di 500 milioni. Reinvestiremo i profitti.

Teodoro Chiarelli

“ Come neo presidente di Confitarma ho un progetto e un’ambizione precisi: far pesare e contare di più l’economia del mare e, conseguentemente, l’associazione che rappresento”.

E’ uno che va dritto al sodo Emanuele “Manuel” Grimaldi, dal 9 ottobre presidente degli armatori italiani. Napoletano verace, 57 anni, sopsato, due figli, un maschio e una femmina, è al timone del Grimaldi Group, sede a Napoli e ramificazioni in 110 porti e 47 Paesi nel mondo, una flotta di 103 navi, 10 mila dipendenti, 2,9 miliardi di fatturato nel 2013: la più grande azienda del centro sud e fra i primi venti gruppi armatoriali del pianeta. Esponente della terza generazione di una famiglia imparentata con il mitico comandante Achille Lauro ( ma la quarta generazione è già in azienda a farsi le ossa), Grimaldi si definisce un “armatore industriale al servizio delle grandi aziende”.

In effetti il gruppo è specializzato nel trasporto di auto per conto delle grandi case europee e americane, da Fiat Chrysler 8” Siamo stati premiati come fornitori dell’anno 2013”) a Wolkswagen, da General Motors a Ford, da Mercedes a BMW: 3 milioni di vetture trasportate fra Nord, Centro e Sud America, West Africa ed Europa. E con i suoi traghetti “ro-ro” (roll on-roll off) il Grimaldi Group, cu ifanno capo otto compagnie di navigazione, di cui due quotate in Finlandia (Finnlines, al 75%) e Grecia (Minoan Lines, al 91%), è il primo trasportatore al mondo di camion. Inoltre la sua flotta comprende 30 traghetti passeggeri e 20 terminal privati ( come ad Anversa, oltre 1 milione di metri quadrati o in Svezia) o in concessione in Europa, Africa e Sud America.

Come mai l’intera economia marittima “pesa” poco nel Paese e voi armatori lamentate scarsa considerazione dai parte dei politici?

“ Forse è anche colpa nostra: una categoria abituata a farsi gli affari propri, gente molto schiva. Certo bisogna cambiare registro. Non è possibile che contiamo meno dell’agricoltura. Questo settore rappresenta una risorsa importante per il Paese. Solo nei porti lavorano 20 mila persone. Nello shipping 50 mila. Senza contare l’indotto, terminalisti, agenti marittimi, spedizionieri, broker, professionisti: per ogni posto diretto ma bordo e nei porti ci sono altri cinque posti indiretti”.

Cosa chiedete?

“Attenzione, chiediamo attenzione e considerazione. Perché noi possiamo essere decisivi per la ripresa e lo sviluppo del Paese. Il 90% delle merci nel mondo viene trasportato via mare. Siccome, senza retorica, siamo un popolo di navigatori, che sa viaggiare e questo mestiere lo sa fare, e bene, per tradizione, bisogna sfruttare una simile vocazione e puntare sulle eccellenze. L’armamento è uno dei pochi settori veramente internazionalizzato, con grandi capacità competitive. In questi anni, nonostante la crisi, abbiamo aumentato l’occupazione e investito oltre 15 miliardi di euro, trasportando 122 milioni di tonnellate di merci ogni anno”.

Sarà ma di tutto ciò traspare ben poco.

“Perciò dico che bisogna cambiare registro. Le faccio un esempio. Il mio gruppo ha messo sei navi sulla Grecia, prima non c’erano. Sono 600 persone, una media fabbrica: tutta nuova occupazione. E come Grimaldi, ce ne sono molti altri. Per questo dico che l’Italia deve avere un sistema mare che funzioni, che sia una risorsa per lo sviluppo in un’economia sempre più globalizzata”.

Perché, allora, l’armamento non richiama l’interesse della Borsa, degli investitori e neppure dei fondi di private equity?

“L’attività è tradizionalmente di carattere familiare. Ma, soprattutto, il nostro è un settore molto ciclico, esposto a continui saliscendi e nel contempo capital intensive. E’ difficle far capire a un piccolo azionista, come a un grande investitore, che i guadagni vanno prioralmente reinvestiti in azienda, a scapito del dividendo. Non sono così convinto che la quotazione sia la strada giusta per le nostre aziende, anche se nel gruppo abbiamo due società quotate e negli ultimi sette anni abbiamo fatto tre opa in Svezia ( Acl), Finlandia ( Finnlines) e Grecia ( Minoan Lines)”.

Niente Borsa in vista, dunque, per Grimaldi?

“No, siamo e restiamo un gruppo familiare che f capo oltre a me, a mio fratello e alle mie due sorelle, mentre un altro fratello si occupa di attività immobiliari”.

Come ha chiuso il bilancio del 2013?

“Dobbiamo ancora chiudere tutti i conti, ma posso dire che sono andati bene, in leggera crescita sull’anno precedente, quando abbiamo realizzato un utile di 160 milioni di euro e un ebitda di 500 milioni. Del resto noi Grimaldi possiamo dire con orgoglio che negli ultimi cinquant’anni non abbiamo mai chiuso neppure un trimestre in perdita. Reinvestendo puntualmente gran parte degli utili in azienda. Dal 2008 a ogi abbiamo aumentato il capitale di 1 miliardo di euro. E continuiamo a investire”.

Quali sono i vostri piani?

“Fra la fine del 2013 3 la fine del 2015 sono in programma 800 milioni di euro per la costruzione di 11 navi. Sei dei cantieri coreani Hyundai e cinque da cantieri cinesi. La prima verrà consegnata a giugno, poi via via al ritmo di una ogni due-tre mesi. Abbiamo saputo cogliere le occasioni offerte dal mercato, trasformando le difficoltà contingenti dell’economia mondiale, un’opportunità. Prima della crisi le stesse navi sarebbero costate il doppio. Una flotta nuova che rappresenta quanto di meglio esiste dal punto di vista tecnologico e dell’efficienza energetica”.

Avete utilizzato solo risorse proprie?

“Naturalmente no. Le banche ci conoscono e ci danno fiducia. Mai avuto problemi di finanziamenti”.

Come giudica l’annunciata alleanza fra Maersk, Msc e Cma-Cgm, le tre più grandi compagnie container del mondo, ribattezzata “P3”?

“Non voglio esprimere giudizi, dico solo che per la piccola Tirrenia l’Antistrust europeo ha impedito l’alleanza fra noi, Aponte e Onorato paventando rischi monopolistici sui traghetti italiani. Faccio fatica a credere che possano mettersi insieme i tre gruppi più grandi del pianeta. E trovo difficile che Stati Uniti, Cina e Giappone li autorizzino a operare nei loro porti senza battere ciglio”.

FONTE: La Stampa