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Daniel Lumera: “Il mare mi riporta all’integrità. Mi riporta a me. È casa. È una madre”

Una giornata all'insegna del cammino dei Patra, della meditazione, del confronto, della musica in occasione della pubblicazione di “Come se tutto fosse un miracolo” (Mondadori)

Del 9 Aprile 2024

di Angela Iantosca

Una giornata di dono. Nel segno del cammino dei Patra. Del vuoto. Del sentire, del condividere e ancora del donare.

Eravamo 1000 persone presenti e 300 circa collegate domenica 7 aprile, al seminario di Daniel Lumera “L’esperienza dei sei carismi”. Una giornata unica nata dalla pubblicazione del suo nuovo libro, “Come se tutto fosse un miracolo” (Mondadori), ma soprattutto dal desiderio di condividere, parlare, ascoltare, gioire, piangere, respirare, lasciare andare e cantare insieme.

Una giornata cominciata per me prima del 7 aprile, cominciata dalla scelta di andare, di percorrere chilometri, di esserci. E poi proseguita sul mare di Rimini, in silenzio, a sentire l’odore, a osservare i colori, la sabbia ordinata e in alcuni tratti “strigilata” come i marmi antichi, a sentire quella pace che è dentro di noi sempre.

Una pace che si è respirata al Palacongressi di Bellaria Igea Marina e che è diventata abbracci, amore: un amore che dal palco grazie alle parole, ai silenzi, alle meditazioni, ai sorrisi di Lumera si muoveva verso il pubblico e che dalla platea saliva verso il palco. Un’onda unica armonizzata anche dalle parole di Franco Berrino, dal canto di Karima, dalla musica di Rashmi Bhatt, dalla chitarra e dalla voce di Erica Boschiero e dagli interventi dei volontari e dei responsabili di questa incredibile realtà che è il Lumera Institute che al suo interno contiene la My Life Design Academy, la My Life Design ODV, il Filo D’Oro e il Centro l’Incontro.

Le sensazioni dentro di me sono ancora lì. Stanno. Come è giusto che sia. Non cercano spiegazioni, motivazioni, giustificazioni o ‘perché’ razionali. Stanno, restano leggere in un presente eterno perché “ora è sempre”. Risvegliate da quelle 7 sveglie puntate nell’arco della giornata utili per riportare ognuno di noi al qui e ora. Al chi siamo. All’essenza. Proprio nel momento in cui ci stiamo perdendo o siamo ‘altrove’ o siamo travolti dagli eventi imprevedibili della vita. Imprevedibili come le sveglie.

Ad un giorno da questa nuvola di parole e impegno concreto (perché il Lumera Institute è soprattutto concretezza) ho raggiunto telefonicamente Daniel Lumera per parlare del suo cammino, del femminile presente in ognuno di noi, dei genitori, del vuoto, del lasciar andare e del mare.

Quando è cominciato per te il cammino dei Patra?

“L’ho cominciato a 19 anni, quando mi hanno iniziato alla pratica meditativa. Molte persone cominciano un sentiero perché vivono una grande crisi, un dolore, un qualcosa che fa crollare tutte le certezze e li proietta dentro. Per me, invece, è stato un grande amore, una grande consapevolezza che ma spinto in quella direzione”.

Lumera è il nome che ti sei scelto, ‘illuminato’ da quanto ti dissero delle signore anziane sarde che in te avevano visto una luce, una lumera, appunto. Il 7 aprile hai compiuto un grande passo: hai deciso di donare pubblicamente il tuo cognome a tutti, perché la lumera è dentro ognuno di noi. Un passaggio importante, che mostra un totale annullamento dell’ego, un voler cedere il passo, il volersi disintegrare in un noi. Quanto questa scelta è stata difficile e quanto ti ha cambiato? Ha a che fare con la coltivazione del vuoto?

“Questo punto del cammino nel quale mi trovo è la somma di tanti momenti in cui si prende contatto con la vita. Vedi le persone che muoiono. Vedi che non c’è tempo, che non c’è spazio. L’ego e la personalità possono essere ottimi canali di espressione, ma ci sono valori superiori. Sono strumenti straordinari e da parte mia non c’è alcun rifiuto, ma ad un certo punto c’è l’esigenza del dono di sé: tutto doveva essere trasformato in un dono. Tutto questo va al di là del successo e di essere al centro: la gioia che provoca in me la possibilità di donarsi completamente e di portarsi nell’esperienza e rendere tutto impersonale mi avvicina all’essere vita. Questo crea leggerezza, espansione, fratellanza, concetti antitetici rispetto a ciò che si vede, ad una società iperperformante. Credo che abbiamo bisogno di rilassarci, di fare vuoto, di diventare Patra, contenitori, di contenere la bellezza delle altre persone e farne dono. Il vuoto mi ha insegnato a contenere, non a trattenere. Questo produce una sensazione di grande di vacuità, di spazio. Io, il 7 aprile, non volevo dire parole che riempissero, ma che creassero spazio dentro ognuno di noi. Volevo essere al servizio, farmi dono. Cosa che mi ha portato a donare tutto, un cognome che aveva un significato profondo. E questo perché ognuno di noi è una lumera. E averlo donato è un passaggio bellissimo”.

Il vuoto, quando lo si pensa, non è più vuoto… perché si fa pensiero. Come fare a mantenerlo?

“Il pieno contiene il vuoto. Una bottiglia vuota è piena d’aria. Il vuoto e il pieno sono delle scelte. Se inspiri, quando finisce l’inspirazione, il polmone è pieno d’aria, ma è vuoto. Ma quando esali completamente, i polmoni sono vuoti d’aria, ma sono pieni di materia e di carne. Questa sensazione di vuoto è uno stato di coscienza. È riconoscere che il vuoto è qui, adesso, nello spazio atomico. I nostri atomi sono vuoti per il 99,9 per cento, noi siamo fatti di vuoto. Fare il vuoto, dunque, non significa raggiungere uno stato, ma ammettere che esiste già. È molto importante comprendere che il vuoto, la pace non è uno stato di quiete, ma accogliere l’irrequietezza. Il vuoto non è sforzarsi, ma ascoltare quello che c’è. Il vuoto è ovunque, nel cuore, nei pensieri. Un cuore vuoto è capace di accogliere. Un cuore vuoto non trasforma l’amore in possesso, ma lo sente e lo dona. Essere vuoti è la nostra natura e la pienezza piena accade quando siamo integri in questa vacuità, integri nel vuoto che sentiamo pieno d’amore, di autenticità, bellezza… Per fare entrare tutto questo, dunque, dobbiamo svuotarci. Abbiamo bisogno di svuotarci dalle preoccupazioni, dagli obiettivi, dal controllo, dagli eccessi, dall’accumulo, dovremmo svuotare le relazioni dal bisogno di proiettare negli altri desideri, di essere amati, accettati… E questo perché svuotarsi crea leggerezza, crea meraviglia!”.

Nel tuo team ci sono molte donne. E Lumera è un nome che ti è stato dato da delle donne. Che rapporto hai con il femminile?

“Di grandissimo amore e devozione. Ma il femminile è presente anche nell’uomo: vedo il femminile come grande bisogno del maschio moderno che necessita di fragilità, di compassione. Ci sono tante donne e gli uomini sono molte importanti nello staff: le donne hanno una funzione importantissima di cura, accoglienza, di bellezza, agiscono in maniera molto forte. Sono state e sono tuttora un aspetto fondamentale del processo di autorealizzazione, della consapevolezza, che riguarda l’accoglienza della fragilità, la cura, la fiducia. Che trasgressione pazzesca la fiducia, eh? Fidarsi è ormai una trasgressione: abbiamo paura ad aprirci e amare. Per questo ci sono tante donne. Perché incarnano il femminile in modo migliore rispetto all’uomo e rappresentano una guida, una luce. Sono onorato che ci siano…”.

Quanto ti ha cambiato l’India in questo ultimo viaggio? Quanto ti ha insegnato?

Sono stato in India più volte e ogni volta quel Paese mi insegna a fluire con la vita. Tu hai un programma e lei ti distrugge quel programma. È un luogo in cui c’è il caos esterno e l’ordine interno, l’opposto dell’Occidente. Loro hanno un caos pazzesco all’esterno e dentro hanno livelli di pace straordinari. L’India quindi mi ha dato questo, il senso del fluire, il farmi viaggiare dalla vita, il farmi respirare dalla vita, in assenza di controllo e in piena fiducia. L’india mi ha fatto comprendere che il divino è ovunque. Non c’è bisogno di pregare un dio lontano, ma celebrare dio ovunque, nel respiro, nel corpo, nel cibo, nell’incontro con gli altri. È ovunque e comunque. Nella mia voce. Nel tuo scrivere ora ciò che dico”.

Ti ho sentito commosso durante le meditazioni. La tua voce, in alcuni passaggi, si è incrinata…

“È vero. Perché le meditazioni le vivo e mi commuovo. Vivo quello che accade non solo dentro di me. Ma sento le emozioni delle persone, i loro dolori, le loro sofferenze e non ho paura di accogliere questo dolore”.

Nel corso della giornata del 7 hai parlato dei tuoi genitori. Che rapporto hai con loro?

“Ho riscoperto entrambi i miei genitori nel corso degli anni. Mio padre l’ho conosciuto meno e l’ho incontrato davvero quando avevo 16 anni: era sempre fuori per lavoro. Ma entrambi mi hanno dato tanto. Mio padre mi ha donato la libertà quando mi disse “la vita è tua, sei libero di scegliere”. Sicuramente verso entrambi ho recuperato un amore profondissimo. Non potrei fare quello che faccio se non ci fossero stati loro”.

Che cosa è per te un miracolo?

“Ogni cosa: vedere una persona che si ammala e muore, vedere una persona che guarisce, la possibilità di esistere è un miracolo. Ho visto cose anche straordinarie nella vita, ma il miracolo è innanzitutto esistere. Rendersi conto che esistiamo è di una bellezza tale da poter essere insostenibile, sconvolgente. La piena consapevolezza di essere genera una meraviglia, una gratitudine incondizionata. Quando l’essere umano è consapevole di esistere al di là delle forme, dei nomi, diventa libero, felice, fiorisce. Ed è grato. Questa dovrebbe essere l’educazione”.

Sei nato in Sardegna, il Centro l’Incontro si affaccia sul mare e il 7 aprile eravamo a Rimini: cosa è per te il mare? E come il mare entra nelle meditazioni?

“Mi avevano insegnato che per meditare bisognava andare in montagna oltre i 600 metri. Ma non è così. Il mare è una parte della nostra mente e della nostra coscienza. È agitato in superficie, spesso non ha forma e in profondità mostra una quiete incredibile. Il mare è casa. Quando atterro in Sardegna e sento l’odore di elicriso, della macchia mediterranea, del mirto, del ginepro odori che mi portano il mare. Il mare in me genera un grande senso di rispetto e calma. Quando torno da lunghi viaggi e sono molto stanco, mi butto in acqua, in quel mare salato e sento che pulisce tutto e mi riporta ad uno stato di integrità. Il mare mi riporta a me. È casa, è una madre”.

Foto Margherita Cenni